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La confusione tra Marketing Etico e lodevoli iniziative sociali

E' abbastanza normale rilevare che un nuovo concetto, soprattuto se introdotto con grande rapidità, possa generare una serie di malcomprensioni tra i soggetti ai quali tale concetto viene proposto.

Un tema profondo e delicato come quello dell'etica, non può certo essere al riparo da questo tipo di effetto.

Con l'introduzione del conceto di Responsabilità Sociale di Impresa nel 1984 grazie al saggio di Robert Edward Freeman, "Strategic Management: a Stakeholder Approach" , si è generato un movimento culturale, sociale ed economico estremamente importante, che sta caratterizzando le scelte strategiche di molte realtà aziendali nel mondo.

Sottolineando che ancora ad oggi non esiste una definizione univocamente e universalmente accettata di RSI, le attività che le singole organizzazioni economiche e non economiche adottano, hanno dato luogo ad una serie di incertezze e di malcomprensioni, oltre che a risultati pratici molto spesso poco confortanti.

La principale malcomprensione consiste nel pensare, e far pensare al consumatore finale, che RSI significhi fare una attività benefica o qualcosa di simile, e che questo porti automaticamente ad un incremento delle vendite o delle preferenze di consumo.

Tutto ciò non può nemmeno lontanamente essere considerato come un approccio etico da parte dell'organizzazione, ma piuttosto una sorta di "trucco" di marketing, a volte peraltro nemmeno ben cogegnato.

L'attività etica necessita di una articolazione e di una strutturazione precisa, che parte da elementi valoriali importanti propri dell'organizzazione, passando per una chiara definizione della propria identità che viene agita sul mercato mediante la ricerca e l'applicazione di una comunicazione etica, di un servizio etico e di una diretta osservazione del cliente, non come oggetto da sfruttare economicamente, ma come soggetto portatore di competenze concrete utili al miglioramento della produzione e al miglior consumo.

I detrattori di questa impostazione sostengono che i consumatori sono soggetti abitudinari, poco inclini al sacrificio economico in nome dell'etica, e che i costi sostenuti per un approccio responsabile da parte dell'impresa non possano rientrare in tempi sufficientemente brevi.

In realtà molta parte di quell'attività strutturata che abbiamo definito "marketing etico", non ha costi particolarmente alti, se non quelli legati allo sforzo di capire e studiare cosa significa realmente e quali percorsi adottare concretamente.

Al di la di questo, si potrebbe rispondere con una domanda: "se i consumatori non sono disponibili a spendere diversamente o di più per l'etica, come si spiegano le migliaia e migliaia di donazioni che le persone fanno volontariamente, così come il

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loro impegno di energia e tempo in attività non remunerate?"


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